Teatro: “Nessuno lo sapeva che eravamo santi” di Eraldo Miscia, regia di Eva Martelli

“Nessuno lo sapeva che eravamo santi” è una pièce liberamente tratta dall’omonimo poema di Eraldo Miscia, originario di Lanciano per la regia di Eva Martelli, messo in scena dalla  compagnia de  “Il Piccolo Resto” e l’Associazione Culturale L’ Altritalia di Lanciano.

La mia amica Irene Giancristofaro mi ha parlato molto dello spettacolo che ho trovato davvero emozionante e suggestivo.

La sua recensione e il libretto di sala, scritti davvero con l’anima, raccontano così bene la storia che ne riporto il testo integralmente, corredandolo  con alcune immagini del’intenso reportage fotografico  di Alessandro Tenaglia.

Buona lettura!

Spettacolo al Fenaroli “Nessuno lo sapeva che eravamo santi”

 La compagnia teatrale de “Il Piccolo Resto” e l’Associazione Culturale L’Altritalia di Lanciano invitano al racconto di alcune storie di uomini deceduti nella tragedia avvenuta a Marcinelle l’8 agosto del 1956. “Nessuno lo sapeva che eravamo santi” è una pièce liberamente tratta dall’omonimo poema di Eraldo Miscia, originario di Lanciano, curata dalla regista Eva Martelli. Il testo di Miscia non affronta direttamente l’episodio dell’incidente nella miniera ma racconta la condizione di vita nell’Italia nel decennio che va dal 1945 alla metà degli anni ’50. Dieci donne in scena ricordano il meccanico Taddeo, Stefano l’amoroso, Antonio lo spretato, il facchino Filippone e il sindacalista Canuto. Lo spettacolo, rappresentato a Lanciano nel 2012 nella sua prima versione, nel giugno del 2013 va in scena al Bois du Caizer di Marcinelle, dove riceve un prestigioso riconoscimento. Nel novembre 2016 debutta al teatro Paul Garcin di Lione con un nuovo allestimento, ospite dell’Istituto di Cultura su invito del Consolato Italiano. “Nessuno lo sapeva che eravamo santi” si presenta come un’esperienza che, attraverso un lavoro di pratica teatrale, diviene drammaturgia e materia multidisciplinare, declinandosi in diverse forme all’interno di un progetto in continua evoluzione. Vi troviamo anche un “Diario” scritto da Irene Giancristofaro, a supporto di un’opera che vuole essere un pre-testo per ricordare la storia d’Italia del dopoguerra, dal punto di vista delle donne.

 

Diario “Nessuno lo sapeva che eravamo santi”

Recitato:

Pensando alle donne rimaste

Quando tornerai a casa, il Cristo che è sempre nella nostra camera da letto scenderà dalla croce e tutto sarà abbondanza. Io provvedo alla mia fame, alla mia sete, al mio sonno, alla mia giovane bellezza e alle mie speranze. Ho bisogno di fare e inventare per non smarrirmi in questa scarna realtà, dove il mio cuore rimpicciolisce e non vuol farsi muto”.

Pensando alle donne rimaste e agli uomini che partirono

Benedette le donne, quando la loro complicità non è abitata da sensi di colpa, buona da stendere al sole come bianche lenzuola di lino. Lenzuola in cui fanno l’amore e partoriscono la vita. I destini nascono avvolti da un bianco di femmina. Quando si nasce non si è soli. Ma quando si muore si può essere soli, dentro un buio colore di lutto indossato da chi rimane a vegliare i ricordi. Il resto, poi, sarà silenzio o diverrà memoria … i sepolcri e gli altari continueranno ad essere bianchi.

Pensando di “scendere tutti in miniera”

Nei pozzi, la luna la si trova nel fondo. Galleggia in uno specchio d’acqua rotto dai sassi, che ne frammenta l’anima riflessa. La sua luce incontra i sogni e le ombre, trovando dimora nel coraggio di chi scende a guardarla da vicino. Chi griderà il proprio nome ad ogni liquida luna, tornerà a cercarne l’eco per non sentirla smarrita.

Pensando agli emigranti

La fame e la storia ci esiliarono in una terra che negò l’accoglienza di un abbraccio. Ci seppellì nello stesso modo in cui ci fece vivere, indegni di pietà. Un rito maschio, celebrato sugli altari, ci volle santi fuori dalle chiese e da ogni verità. Ora, qualcuna guarisce le nostre ferite e non ci aspetta alle uscite. Canta parole che si fecero mute, ponendo un sasso e una rosa sui nostri sepolcri. Ci sentiamo nudi di giustizia e amore e chiediamo diritto di vestizione. Solo così potremo continuare il nostro cammino, senza inciampare nelle stelle.

Pensando al Dio di un minatore

Ci sono alcuni che hanno bisogno di inventare Dio, altri di accontentarlo ed altri ancora di comandarlo. Io avevo bisogno di amarlo, anche in quel suo sguardo distratto. Il giorno in cui morii, Dio era nelle chiese, dove è più facile farsi ascoltare. Nelle chiese, i crocifissi e i santi li puoi toccare con mano. La fede non insinua dubbi quando te la ritrovi davanti. L’uomo ha bisogno che un mistero possa assumere una sembianza, per essere credibile. Un Dio fatto di niente non può pretendere di concedersi neanche alle anime più semplici … e noi non lo eravamo, a dispetto di tutti. Dio, ti ho perso e ritrovato tante volte nei miei naufragi, in cui eri tempesta e approdo. Tormento e salvezza. Matrigna e madre. Inquietante e necessario, ti ho respirato senza comprenderti.

Pensando alla morte

La Morte è impudica perché serve Dio e il diavolo. È ladra, femmina di bordello, padrona e signora degli altari. Non concede mai un mancato finale. Gioca a rilancio al buio all’inferno e con i santi. È dolorosa e temuta come la libertà, sacra e terrena come una religione. È un mistero difficile da spiegare, se non lo si è compreso già.

Pensando alla figlia di un minatore

Prima che io nascessi fosti statua d’ebano fuori dalle chiese. La tua sposa ti mise dentro una preghiera che ti accompagnò nel buio di un cielo capovolto, dove respirasti polvere scura, puzzo di sudore e di paura. La luce delle lanterne non erano come quelle delle stelle. Avevano sguardi di matrigne, non di sorelle. Padre, la tua storia mi è stata raccontata dai silenzi di mia madre. I suoi sguardi hanno taciuto giorni subìti, scelte obbligate e un dolore perduto. Io ti voglio amare, anche per ciò che di te non compresi e non seppi perdonare. Ora non desidero più inventarti, sono tua figlia e voglio ereditarti.

 

 

Pensando ad un figlio di un minatore morto.

Ti ho conosciuto come un padre mai nato, naufrago in una terra di minatori che ti fece soldato. Per te il tempo remò controcorrente, mentre combattevi una guerra mai dichiarata che arruolò tanta gente. Ti cerco in giorni perduti, in ricordi prestati e in volti scordati. Ti conduco in posti dove non sei mai stato, per darti quello che ti è stato rubato. Ti parlo nell’istante di una fotografia, raccontandoti ciò che non sono o che si vuole che io sia. Non mi basti mai perché non ti conoscerò come avrei dovuto e non saprò ciò che sai e che mi hai taciuto. Dicono che l’amore inventato non vale il ricordo di nessuno … ma cosa ne sa la gente? Non conosce questo mio dolore, non ne sa niente.

Pensando ai minatori morti

Un utero di terra ci diede dimora,

e noi credemmo di poter nascere ancora.

Ci resero uomini inferiori ai nostri sogni,

con giorni di sole

freddi come in un albergo a ore.

Eravamo figli senza padri,

alberi sradicati,

fiumi arginati,

vento di grecale

e pioggia di acqua e sale.

Ci abbracciammo nel dolore di quell’unico volo,

senza bisogno di confessarci amore.

 Irene Giancristofaro

11 risposte a “Teatro: “Nessuno lo sapeva che eravamo santi” di Eraldo Miscia, regia di Eva Martelli”

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