GRANDE DISTRIBUZIONE CROCE E DELIIZIA: la delocalizzazione ha creato mostri nel tessile/abbigliamento

Buongiorno cari lettori di Robyan Blog, oggi voglio scrivere di un argomento tecnico/creativo che mi sta molto a cuore da fashion designer: la delocalizzazione e la perdita di valore aggiunto e credibilità del Made in Italy.

L’argomento è un po’ lungo perciò l’ho diviso in tre parti.

Parte I – Com’è cambiata la grande distribuzione dagli anni ’80 ad oggi

 

Quando ero una giovane aspirante stilista, la moda pronta era agli albori, vi era ancora una distinzione netta tra alta moda e prêt-à-porter, c’era la lira e la nostra capacità d’acquisto era superiore a oggi (grazie alla lira).

Il Made in Italy regnava sovrano in tutto il mondo e surclassava persino il nostro competitor storico, la Francia.

Quando si andava nei negozi ad acquistare capi d’abbigliamento, potevi trovare facilmente cose ben fatte e originali (allora la moda la facevano ancora gli stilisti e non i fashion blogger o i cool hunters), una camicia che pagavi 50.000 lire (25 euro) oltre ad avere un tessuto di buona qualità, aveva un ottimo taglio e una 44/46 era una M (non una L) e anche chi portava la 50/52 (XL non XXL) poteva trovare cose carine e di buon rapporto qualità/prezzo.

Verso la fine degli anni ’80 nasceva la moda pronta, cambiando le regole del gioco:

quella camicia così bella di quella tale ditta che costava 50.000 lire, potevi pagarla la metà se acquistavi un capo di pronto moda (che imitava le aziende medio/alte nello stile, usando però tessuti meno pregiati e, grazie alla produzione continua, la moda ufficiale veniva “clonata” in tempo reale, a volte anche prima delle sfilate: lo spionaggio industriale cannibalizzava ogni brand).

Il Made in Italy, pur subendo questa “nouvelle vague” del pronto/moda, continuava ad avere la sua valenza e prestigio, semmai aumentato dalla moda pronta fatta in Italia che, per gusto, stile e manifattura offriva al consumatore una vestibilità buona rispetto al prezzo ridotto.

Sfilata anni ’80…strane assonanze con le sfilate attuali: creatività ne abbiamo?

Verso la metà degli anni ’90 comincia la delocalizzazione della produzione nei paesi dell’Est Europa e in Asia: molte aziende fallivano e quelle che resistevano erano quelle che spostavano nei paesi in via di sviluppo la produzione. dove il costo della manodopera era (ed è) più basso.

Le imprese, pagando meno contributi per ogni dipendente assunto e acquistando i tessuti in loco (in Italia le tasse onerose che gravano sull’azienda per ogni lavoratore, non favoriscono nuove assunzioni), potevano far lavorare anche a ciclo continuo.

 

Parte II – Lo stato in cui versa il Made in Italy oggi

Attualmente abbiamo più ditte straniere che italiane nella grande distribuzione, nell’alta moda e nel prêt-à-porter.

Molti grandi marchi Made in Italy hanno venduto agli stranieri, che continuano a produrre merda (vedi certe sfilate oggi e poi muori), usando il brand che ha una storia di stile e qualità.

Ebbene ultimamente ho girato alcuni grandi centri commerciali della mia zona che vendono sia firme medio/alte che medio/basse.

Faccio una premessa:

oggi la 44 – M non è più la stessa, ma una 42 tirata (il tessuto costa, riduci la taglia e risparmi).

Bene (anzi, male), questo nuovo “sviluppo taglie globalizzato” – che produce capi uguali per tutte, senza considerare che una donna tedesca è sostanzialmente diversa da una donna giapponese, per colori e tipologia fisica, crea spesso problemi di vestibilità anche per chi ha un fisico regolare.

Altra grande trovata è l’aver sostituito gli stilisti con i fashion bloggers (quelli/e che amano fare shopping e si reputano arbiter elegantiarum) e i cool hunters (cacciatori di tendenza: gente che gira il mondo a fotografare le persone e le vetrine per capire cosa si porta e piace), due categorie che hanno ridotto la creatività ai minimi storici.

Da notare il totale appiattimento di idee dal 1990 a oggi…

Quei pochi validi stilisti che ancora resistono si contano sulle dita di una mano, molti non hanno talento ma sono protetti dalla Lobby che spadroneggia nell’ambiente, non a caso sono tutti uomini, poche pochissime le stiliste donne…fatevi una domanda e datevi “la” risposta.

Rassegnate al piattume, andiamo a fare acquisti: io che sono una 44 vera trovo vestibili soltanto la 46/48 che equivale a una L , le mie amiche che sono più magre di me e portano la 40/42 di oggi (la 38/40 degli anni ’80/’90) faticano peggio di me a trovare abiti che le vestano bene: taglie sballate, giromanica improbabili e giacche con spalle strette da poveraccia che guai se ti muovi strappi tutto, una montagna di abbigliamento spazzatura che però paghi 50.000 lire che sono 25 euro e anche di più, del resto anche se vai verso le ditte più trendy e costose i problemi non cambiano.

Camicia acquistata nel 1992, poliestere 100% – made in Italy costo 15.000 lire. pronto moda
Camicia acquistata due settimane fa, non made in Itly, poliestere 100% , costo 30 euro (pari a 60.000 lire) marchio famoso straniero – identica in tutto alla precedente sia nel taglio che nel tessuto

Parte III – Conclusioni

 Una moda che sta vivendo di rendita dei decenni precedenti: siamo arrivati al riciclo dei primi anni ’90.

Voglio ricordare che dalla metà degli anni ’90 con l’avvento della globalizzazione e il depauperamento del Made in Italy, la ricerca si è bloccata e si è cominciato a copiare gli anni ’70…

1993. copertina di AMICA, comincia il riciclo anni ’70

(vedete che via dovete fare, avete esaurito le fonti)

Oggi la domanda che bisogna porsi dunque non è più: “cosa va di moda quest’anno?” ma “quale moda hanno riciclato per quest’anno?”

Primavera/Estate 1995
Primavera/Estate 2017

Provi a parlare con un politico e quello ti fa spallucce e ti dice: ”La globalizzazione è un fenomeno che non possiamo contrastare (poi corre a farsi un selfie con i suoi potenziali elettori o a rifarsi il trucco per la trasmissione TV dove passa più tempo che in Parlamento).

Voi mi direte che è facile criticare, ma tu cosa avresti fatto?

1) Avrei protetto i nostri marchi con politiche adeguate e più controlli per contrastare la vendita abusiva di merce falsa.

2) Preservare il prodotto italiano abbassando le tasse che le aziende devono pagare per assumere i dipendenti, così che possano rimanere e non partire o peggio, chiudere.

3) Le nostre aziende spesso sono piccole e medie imprese a gestione familiare, creare politiche efficaci che formino alla competitività e favoriscano queste realtà, il mercato aperto (alla merda) uccide.

I politicamente corretti direbbero che beh il libero mercato vale anche per le nostre aziende che vogliono comprare marchi europei…ERRORE!

per noi subentra la mens rea di Bruxelles: quando ci muoviamo noi per acquistare, se tentiamo di farlo nei paesi del Nord (compresa la Francia nostro competitor storico per la moda), son sassate nei denti… con buona pace dei nostri governanti.

 

Ciononostante il Made in Italy è ancora un brand che all’estero è sinonimo di

qualità e stile: ci stanno provando in tutti i modi a smantellare le nostre eccellenze…per ora reggiamo, ma fino a quando?

 

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